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Una chiacchierata con Paolo Giordano, l'autore de "La solitudine dei numeri primi"

La scrittura, il successo e la scelta di personaggi "problematici"

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Siamo con Paolo Giordano, uno dei più brillanti scrittori della nuova generazione, che seppure molto giovane ha già pubblicato molti romanzi e ha raggiunto il successo, in particolare grazie alla fortunata La solitudine dei numeri primi, libro che lo ha reso famoso anche grazie a una trasposizione cinematografica. Affrontiamo con lui una lunga chiacchierata in cui parliamo di diversi temi.

Innanzi tutto, come è maturata la tua voglia di fare lo scrittore, tu che vieni da un'esperienza di formazione scientifica?

"In realtà, è nata da una semplice passione, ambizione giovanile. Fin da ragazzo, ho amato molto la lettura e penso che in tutti i lettori appassionati nasca prima o poi la velleità di provare a scrivere. Però era una cosa che avevo tenuto molto da parte e inespressa per tanti anni; poi c’è stato un momento, a ridosso della laurea, in cui ho cominciato a capire che se avessi perseverato nell’ambito scientifico la mia vita sarebbe andata in una certa direzione, molto precisa, allontanandomi dalla possibilità di un contatto con la scrittura. Ho pensato che quello fosse l’ultimo momento buono per cimentarmi, e l’ho fatto veramente con quello spirito."

La solitudine dei numeri primi sembra accennare a problemi psicologici molto comuni nella nostra generazione, come l’impossibilità di comunicare o di aprirsi alle altre persone, ma anche a problemi sociali molto importanti, come quello di una generazione di giovani appartenenti a famiglie borghesi, che però vengono talvolta lasciati soli a se stessi, circondati da una sfera di benessere materiale come mai prima ma senza un corrispondente di affettività.

"È il solito dramma della borghesia. Quando scegli un contesto sociale che è quello della classe media, almeno fino a un po’ di anni fa – adesso i contesti sociali sono cambiati – i problemi più importanti non erano quelli economici, in quel tipo di contesto, e quindi quello che veniva fuori era di sicuro racchiuso in una specie di mancanza di relazioni, di non detti, comportamenti ben conosciuti nell’ambiente middle class, che poi ho ben conosciuto essendo vissuto in quel tipo di ambiente, non proprio provinciale ma nemmeno metropolitano. Quindi è sicuramente qualcosa che mi appartiene, il distacco tra l’apparenza e la sostanza nei rapporti."

In alcuni tuoi racconti, come Pinna caudale o Vitto in the box, si parla spesso di personaggi che hanno dei deficit fisici, psicologici o esistenziali, che però non hanno timore di affrontare la vita, di aprirsi agli altri, di vivere in una parola.

"Scegliere dei personaggi, che abbiano come dire delle anomalie, dei dettagli che li rendano diversi dal canone, ha un senso perché ti permette di avere una prospettiva leggermente decentrata sulla realtà e su ciò che racconti, di avere un angolo da cui parlare che sia più interessante, più spiazzante, che dunque avviene dalla prospettiva di chi, per qualche motivo, non è o non si sente perfettamente adeguato."

Per te può essere la scrittura un lavoro su di sé? Cioè da una parte un veicolo di innalzamento della coscienza dell’individuo, ma anche un lavoro per cui, mediante la scrittura, lo scrittore riesce ad andare incontro a trasformazione interiore? Dunque, una scrittura quasi come terapia?

"Ma guarda, sicuramente è un lavoro su di sé, continuo, nel senso che la scrittura – almeno per come me la vivo io – parte da una rielaborazione continua del proprio vissuto. Che abbia un valore terapeutico, nel senso di curativo, non ne sono così convinto: secondo me ti porta a riuscire ad analizzarti, ma questo non significa necessariamente che sia in grado di guarirti, perché in un certo senso ti riporta in continuazione in contatto con delle parti di te che vorresti più volentieri tralasciare, che sarebbe più salutare tralasciare. Credo che la scrittura sia un esercizio solitario. La cura di se stessi, invece, spesso ha bisogno di una persona su cui scaricare le tue tensioni."

Negli ultimi anni hai avuto molti impegni all’estero, sei stato al seguito di Medici senza Frontiere, hai scritto un racconto Mundele – pubblicato su Nuovi Argomenti – ispirato ai problemi del terzo mondo; poi è arrivato il romanzo Il corpo umano (Mondadori) in cui sembra ti sia discostato dal vecchio tipo di scrittura più psicologico.

"In realtà, è una cosa che è subentrata dopo, ma io ho avuto sempre una certa curiosità per il di fuori, per l’elemento anche del viaggio, dell’esplorazione. È una specie di alternanza: ci sono dei momenti in cui mi sento che restare sul personale, su ciò che è molto vicino, mi appesantisca per cui vado a cercare fuori, lontano; ci sono dei momenti in cui sento che ho bisogno di riavvicinarmi a qualcosa di veramente più intimo. Penso sia un percorso che varia in continuazione, avanti e indietro."

Cosa vuoi trasmettere con la tua opera?

"(Sorride) niente di preciso. Non ci penso mai veramente. Cerco di farlo bene, che sarebbe già tanto. Non ho degli intenti morali, ma è chiaro che attribuisco alla letteratura un punto di vista molto più alto e ampio del solo punto di vista estetico, però non comincio certo a raccontare delle storie con intenti di evangelizzazione, di qualunque tipo."

E allora quale potrebbe essere lo scopo della letteratura, e in particolare dello scrittore, in questa società?

Giordano: Secondo me, la cosa di cui c’è veramente bisogno è di aiutare le persone a mantenere un contatto emotivo, intimo con le parti più oscure, più contraddittorie, e con certi tipi di dolore, che ci appartengono. Per cui mi sembra che sia una riconnessione continua con i lati più profondi di sé.

Come ha cambiato il successo la tua vita?

"Momentaneamente, dopo la Solitudine, è stato tutto molto nuovo, un po' confuso, anche molto veloce. Adesso devo dire che le cose si sono piuttosto acquietate, quasi per paradosso il successo l'ha resa più tranquilla: adesso riesco a dedicarmi a quello che voglio fare con tranquillità e a devolvere tutto il tempo di cui ho bisogno alla scrittura, che è ciò che mi interessa. Direi che questa è la cosa più significativa."

Sei attivo anche a livello sociale o politico, o non mischi il tuo lavoro a queste sfere?

"Ho il vizio di distinguere le due sfere, come se ci fosse un modo di scrivere serio che sia non politico e uno che sia politicamente impegnato. Ma penso che perseguire, come ti dicevo prima, già una sorta di contatto con il profondo sia un'azione prettamente politica. Al di là di questo, se intendi delle mie iniziative deliberate, è qualcosa che inizio a fare, adesso attraverso il Corriere della Sera sto affrontando con alcuni interventi i problemi della scuola."

Secondo te, la scrittura può essere collegata in qualche modo all'eternità? Il poeta latino Orazio diceva che non tutto di lui sarebbe morto, ma sarebbe perdurata la sua opera. Ecco, secondo te c'è qualcosa che rimane?

"L'eternità è molto lunga. Se va bene per un po' già va bene. Comunque lo si fa per lasciare una traccia, ma senza pensare proprio all'eternità. Basta guardarsi intorno: non ci sono in giro molte tracce di eternità."

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