“Sguardo serial. I telefilm che raccontano la contemporaneità” è il titolo del primo libro pubblicato da Andrea Cinalli, un ragazzo di soli 23 anni di Atessa che vanta alle sue spalle una brillante carriera, nonostante la sua giovane età.
Andrea studia Amministrazione e Comunicazione all’Università di Teramo. Nel 2009 ha iniziato a collaborare con il mensile "Series Magazine", per il quale ha curato una rubrica di fan fiction e recensioni di serial americani.
Dopo saltuarie collaborazioni con le testate online Piazza Grande Quotidiano, Il Corriere d’Abruzzo.it, Ed è subito Serial, DailyBlog.it, Vasto24 e L’Altra Parola.it, nel 2011 ha scritto per il periodico "Telefilm Magazine".
Per due anni ha tenuto, sul quotidiano teramano "La Città", una rubrica sui serial tv, ed è co-autore delle sceneggiature di Sendai, una webserie che ha debuttato nel giugno 2015 su Mediaset Infinity. In merito alla sua prima pubblicazione, Andrea ha deciso di rilasciarci un’intervista.
Quali sono le motivazioni che ti hanno indotto alla stesura del libro?
Innanzitutto devo precisare che i testi raccolti in “Sguardo Serial” inizialmente erano destinati alle testate giornalistiche con cui collaboravo. Solo in seguito, affettuosamente spronato dal critico letterario del quotidiano teramano “La Città”, Simone Gambacorta, uno dei miei mentori, ho deciso di rimaneggiarli, arricchendoli, tagliuzzandoli e uniformandoli sotto il profilo stilistico – lavoro che poi ho continuato a svolgere sotto il vigile sguardo degli editori della Galaad – per farne un vero e proprio libro, un saggio che fotografasse le peculiarità e il fulgore creativo di questa straordinaria arte in bilico fra letteratura e cinema, che non a caso negli States – ma piano, piano anche dalle nostre parti – viene denominata “New Literature”, “Nuova Letteratura”. Ciò che mi ha spinto alla composizione di questo volume credo sia l’amore viscerale per la serialità e la voglia di lasciare un segno, qualcosa che rimanesse a imperitura memoria di me e di questa sconfinata passione che mi vibra dentro fin dall’infanzia. La pubblicazione, poi, è stata il riconoscimento che agognavo fin dagli esordi delle mie avventure giornalistiche: ho scritto prevalentemente su riviste di serie televisive e quotidiani culturali dall’età di 15 anni, e non ho mai trovato un direttore di giornale di cui mi potessi fidare abbastanza per il conseguimento del patentino da pubblicista; dopo quasi dieci anni ero ancora il ragazzino anonimo che scribacchiava senza titolo e compenso; con questo libro, però, senza imbarazzo, posso definirmi scrittore-saggista, che per me significa molto, e oltre che traguardo è un punto di partenza verso la mia prossima meta: la pubblicazione del primo romanzo.
Quali sono gli elementi che secondo te non dovrebbero mai mancare in una serie televisiva?
Ti rispondo come faceva Alfred Hitchcock nei seminari in cui interveniva: “Una storia, una storia, una storia.” Sì – per quanto possa sembrare scontato – è necessaria una storia solida e avvincente che attragga lo spettatore dal teaser della puntata pilota fino alla risoluzione del ‘series finale’, l’episodio che dopo molti anni chiude la serie. Sottolineo questo perché ultimamente mi capita di ravvisare in alcune serie una trama appena abbozzata, appoggiandosi quasi esclusivamente sulle atmosfere torbide, cangianti e suggestive tinteggiate da una regia sempre magistrale, come se, piuttosto che goderci un racconto televisivo introspettivo e sincopato, stessimo assistendo a una mostra fotografica. Su due piedi, cito il nuovo “Preacher”, trasmesso quest’estate dalla AMC americana, “Intruders” di BBC America, ma anche la prima stagione di “Hannibal”, che poi però a partire dalla seconda ha cambiato rotta, focalizzandosi sul rapporto ambiguo – e amoroso, ma di un amore fievole che rifulge col progredire del racconto – fra Hannibal Lecter e Will Graham, il profiler FBI che gli dà la caccia. “Hannibal”, per esempio, oggi non solo è esteticamente impeccabile, ma elargisce anche una delle storie più coraggiose e intense degli ultimi tempi: una storia d’amore omosessuale, platonica e shakespeariana, sullo sfondo di delitti e ripicche omicide. Insomma, il giusto bilanciamento fra trama ed estetismi registici che vado cercando.
Come vedi il futuro dello sceneggiatore- showrunner?
Roseo, un futuro assolutamente roseo. Questo perché il ruolo dello scrittore nelle serie tv è il più importante, cruciale, decisivo. Il regista è secondario. In America, Gran Bretagna e Danimarca funziona così. Sono gli scrittori – oggi sempre più romanzieri sedotti dal medium televisivo – che, all’affacciarsi di un’idea, scritta qualche pagina per meglio organizzarla ma spesso anche una ‘bibbia di serie’, un imponente documento che racchiude tutto l’universo narrativo del telefilm, imbastiscono i ‘pitch’, le presentazioni presso le reti televisive, al termine delle quali si decide se procedere alla stesura della sceneggiatura o se abortire il progetto. Più o meno come accade a un aspirante romanziere in cerca di una casa editrice. È dallo sceneggiatore che parte tutto. Lo sceneggiatore – e in particolare lo showrunner, che è lo scrittore capo cui spettano le decisioni più importanti – è il fulcro, la linfa vitale di una produzione televisiva. E visto che il mercato delle serie tv è in continua espansione, ti lascio immaginare quanto possa essere brillante – seppur non scevro di incertezze – il futuro di questo ruolo. In Italia, ovviamente, il discorso è diverso. Gli sceneggiatori spesso vengono presi in scarsa considerazione e pagati pochissimo, spesso purtroppo devono rimaneggiare i testi per qualche stizzosa attricetta primadonna cui non vadano a genio dei nomi o delle battute. Nelle serie italiane, purtroppo, primeggia ancora il regista e non ci sono “writers’ room”, le monumentali redazioni che in America ospitano gli scrittori di serie tv. Insomma, c’è ancora tanto da fare perché si cristallizzi una cultura seriale. Ma le produzioni Sky fanno ben sperare… Io ho avuto un’esperienza da sceneggiatore, per una webserie debuttata su Mediaset Infinity, “Sendai”. È stato entusiasmante perché non avevo mai scritto una sceneggiatura in vita mia, fino ad allora avevo solo studiato da autodidatta leggendo decine di manuali sulla disciplina, e di colpo mi ero ritrovato catapultato in un ruolo a me inedito. La cosa di cui vado più fiero è l’episodio pilota, che feci leggere anche a Leonardo Valenti, l’autore di “Romanzo Criminale”. Dopo averlo letto non fece altro che incoraggiarmi ad andare avanti, cosa di cui gli sono immensamente grato. E credo che sì, un giorno, forse, anch’io tenterò la strada dello showrunner, chissà.
Da un punto di vista locale, che tipo di vantaggio offre un lavoro di riflessione come quello che emerge nel tuo libro?
Se ti riferisci all’aspetto territoriale, e in particolare alla sfera culturale di regione, provincia e città, sicuramente potrebbe offrire validi suggerimenti e idee sotto il profilo creativo: mi piacerebbe – come scrissi anche sul quotidiano La Città – che le reti locali producessero delle piccole webproduzioni, sulla scia del successo di “Freaks” (di cui parlo anche nel libro) realizzato con un budget di soli 2000 euro, che mostrassero le storie e i racconti dei borghi di provincia. Mi viene da pensare al romanzo di uno scrittore teramano che ho avuto il piacere di conoscere – parlo di Fabio Petrella e del suo “Dove non arrivano i sentieri” – in cui rielabora storie e leggende legate alla sua città natale, Poggio Umbricchio, con una confezione linguistico-letteraria impeccabile. Lo stesso si potrebbe fare con queste webserie/miniserie. Mi viene in mente, a tal proposito, la leggenda legata alla nascita della mia città. Secondo questa, Atessa era divisa in due villaggi, Ate e Tixa, a causa di un drago che è stato in seguito annientato da San Leucio, il cui intervento ha portato pace e prosperità. Queste sono le storie che, anche restando in ambito locale, se ben confezionate – sotto il profilo autoriale, registico e recitativo – possono valicare i confini regionali, trasformandosi in ghiotte opportunità per il turismo e l’economia territoriale.
Che tipo di suggerimenti daresti a tutti coloro che per la prima volta si apprestano alla stesura di un libro ?
Non mi sento nella posizione di dispensare consigli, però quello che raccomando caldamente quando ci si accinge alla scrittura è di non pensare mai alla pubblicazione – vale anche per gli articoli di giornale – ma di lavorare per sé, ricamando e limando i testi con una cura certosina ebbra di entusiasmo e spoglia di pressioni. Nello specifico, quando si scrive un libro penso non ci si debba mai sedere alla scrivania, appunto, con l’idea di scrivere un libro, bensì di scribacchiare, di provare, sbagliare, perdonarsi e ricominciare verso la strada del miglioramento. Finché non si ha in mano qualcosa di solido da rimaneggiare e riscrivere ulteriormente. Quanto alla fase successiva, quella della pubblicazione, penso non ci si debba mai affidare a editori disonesti che succhino i famigerati contributi economici. Perché spendere per vedersi pubblicati? Meglio aprire un blog o tentare la strada del self-publishing su Amazon, che considero tuttora l’ultima spiaggia qualora un lavoro costato tempo e fatica venisse rifiutato da tutte le case editrici che fossi riuscito a raggiungere. Per ora, col primo libro, posso dire di aver vissuto un’esperienza meravigliosa. Paola Vagnozzi, Paolo Ruggieri e Stella Caporale della Galaad Edizioni sono persone e professionisti fantastici. Non credo avrei potuto trovare editori più gentili, disponibili, onesti e leali. Auguro a tutti gli aspiranti scrittori là fuori la stessa fortuna!